IV
Non riuscivo quasi a credere alla mia sbadataggine, al
fatto di aver trascurato un suggerimento così chiaro. Forse perché la
consideravo inconsciamente un’opera di fantasia. Era scritto nero su bianco tra
le pagine de “La
Grande Inculata ”:
“… non erano
rimaste che le ossa, le quali sotterrammo accanto al pozzo.”
La notte stessa
dell’incontro con Gisto mi munii di una pala e di una potente torcia elettrica
e andai alla casa di campagna di Gallo.
Quella sera,
prima di partire, avevo raccontato a
Lando tutti i dettagli dell’oscura vicenda. Come prevedevo fece fatica a
credere alla storia, poi però, ipotizzando che potesse essere anche solo in
parte vera, si disse molto preoccupato per la mia ostinazione nel voler
risolvere il Grande Mistero.
“Stanotte vengo
con te, non voglio nemmeno immaginarti nei pressi di una casa sperduta a
scavare per cercare uno scheletro” disse.
“No Lando, devo
andare da sola. Ho deciso di non coinvolgere nessun altro all’infuori di me
in questa faccenda. Riguarda me e mio fratello. E poi non possiamo sempre
lasciare Giulia dai nonni, no?!”
Conosceva bene
la mia testa dura Lando, e dopo una breve discussione si arrese, accettando la
mia decisione ma esortandomi a fare molta attenzione.
Ero dunque sola
alle ventidue e quarantacinque di quella sera di ottobre, unico essere umano
nel raggio di un paio di chilometri. La casa denotava lavori di
ristrutturazione in corso. Mentre scavavo, per scacciare quel vago senso di
pericolo – pericolo immaginario, evocato dalla notte e dai fantasmi veri o
presunti che vi aleggiavano – mi ero messa a ripetere “sempre resti, resti
dappertutto, sempre resti, resti dappertutto…” come fosse un mantra.
All’una e mezza
avevo scavato per un paio di metri nel raggio del pozzo, raggiungendo una
profondità di un metro, un metro e mezzo. Quasi stremata e soprattutto
rassegnata mi lasciai cadere supina in quella buca spettrale. Il cielo era
stellato e l’aria di metà ottobre era pungente, più vicina all’inverno che
all’autunno.
“È tutta
un’invenzione, uno scherzo, è… è…è solo un romanzo” mi dissi. “Simone è
morto chissà dove e non esiste nessun Robby. Non verrò mai a capo di nulla.”
Poi d’un tratto
mi accorsi che sotto il peso della mia testa appoggiata per terra qualcosa
cedeva, faceva clic clac come certi tappi d’alluminio, quelli per
garantire l’integrità del prodotto che contengono. Mi alzai di scatto e tolsi
un po’ di terra con le mani. Apparve il coperchio di uno scrigno azzurro di
metallo leggermente ossidato. Lo dissotterrai con il cuore che andava a mille
per l’emozione. Era lungo una trentina di centimetri per venti e quindici
centimetri di altezza: non poteva certo contenere uno scheletro, almeno non
tutto. Cercai di calmarmi un poco riprendendo il mantra interrotto, poi
l’aprii. Al suo interno c’erano due macchinine da corsa (un modellino Formula 1
di Ferrari e uno di Lotus), una decina
di soldatini di plastica, un pupazzetto di peluche di Kermit la rana, tre
palline di plastica con le foto di ciclisti dentro (Moser, Saronni e Merckx),
di quelle che i bimbi usavano una volta in spiaggia per fare le gare sulle
piste disegnate sulla sabbia. C’erano anche un volumetto di fumetti di “Topolino”,
uno di “Nonna Abelarda”, una mazzetta di figurine di Barbapapà e un robot con
gli arti snodabili, Daitarn III per la precisione.
Riconobbi quegli
oggetti: erano di Simone, non c’erano dubbi. Ricordavo ancora quelle
macchinine, anch’io ci avevo giocato insieme a lui; avevo giocato anche con le
palline in spiaggia e a causa di quei giornaletti abbiamo fatto interminabili
litigate da piccoli. Anche per le figurine litigavamo, perché l’album era di
entrambi e lui mi accusava di attaccarle storte (già si notava la sua tendenza
al perfezionismo). Che emozione! Trattenni le lacrime, arginando come potevo il
fiume di ricordi. Ma passato il turbamento sopraggiunse la confusione. Cosa
significava quello scrigno azzurro? Perché mio fratello lo aveva sepolto? E
perché proprio lì in campagna da Gallo? Mi persuasi che ci dovevano essere
anche le ossa di Robby là sotto. Scavai e scavai, ossessivamente, fino a cadere
arresa e stremata. Alle prime luci dell’alba caricai in macchina pala, torcia e
scrigno e tornai a casa.
V
Non so cosa pensò Gallo quando scoprì la buca intorno al
pozzo, ma qualche ora dopo, in piena mattinata, mi arrivò una telefonata
anonima a casa. Una voce metallica disse semplicemente “Contenta adesso?” e
riagganciò.
Benché stremata,
quella mattina non ero andata a letto. Lando mi aveva accolto in casa
preparandomi un caffè. Mi rimproverò di aver lasciato a casa il cellulare.
Disse che non aveva chiuso occhio tutta notte e almeno un paio di volte aveva
pensato seriamente di raggiungermi, poi però aveva rinunciato ricordando il
giuramento che gli avevo fatto fare di non intromettersi nella faccenda. Sono
una ragazza dolce e gentile, ma quando dico una cosa è quella e guai a
contraddirmi!
Davanti alla
tazza fumante di caffè gli mostrai lo scrigno.
“Certo che tutta
questa storia è davvero bizzarra” mi disse Lando.
“Già” ribattei
laconica io.
Mentre
distrattamente sfogliavo il “Topolino” che c’era nella scatola, dal suo interno
cadde sul pavimento un foglio piegato in due. Lo aprii e vidi questo disegno…
Una lapide! Una
lapide a forma di boccale di birra! Era opera di Simone, non c’erano dubbi.
Aveva segnato pure l’anno di nascita. Probabilmente era il suo progetto per una
tomba su misura da abbinare all’aforisma “perfetto” che da anni cercava di
creare. Non che mio fratello ci tenesse troppo a farsi seppellire; voglio dire,
a lui sarebbe andato bene anche farsi cremare, o essere gettato nell’immondizia
per quanto gliene importava. Visto però che non voleva privare chi gli voleva
bene di ricordarlo davanti a un feticcio commemorativo, il fratellone aveva
elaborato il suo prospetto.
Dopo quel giorno
di ottobre in cui trovai lo scrigno, gli eventi si susseguirono rapidamente. Un
giorno mi giunse una lettera. Notai subito il francobollo che rappresentava
un’aquila in volo. Regno di Utopia c’era scritto sullo sfondo di un
cielo azzurro. Aprii la busta con il cuore in gola e lessi:
Cara Signora Arianna,
sono venuto a conoscenza delle sue ricerche. Se si
chiede come ho potuto glielo spiego subito: la rete spionistica di Utopia è la
più avanzata del mondo. So quello che le ha scritto suo fratello e so che lei è
una brava persona. Sono certo che saprà mantenere il segreto, ma del resto, chi
le crederebbe?!
Forse si aspetta che la aiuti a risolvere il Grande
Mistero. Ebbene, non posso. Non posso perché adesso Simone appartiene alla
storia, al passato, è un po’ come il personaggio di un romanzo fantastico. Ha
ucciso o no Robby? CHE IMPORTANZA HA ORMAI? Ha voluto confessare un efferato
omicidio o sotto Robby si nascondeva una metafora? Voleva semplicemente
liberarsi di un pesante segreto o inviare un forte messaggio alle poche persone
intelligenti che vivono nel mondo fuori da Utopia? Lasci perdere cara Arianna.
Lasci che Simone se la rida di tutti là dov’è ora, nel mondo degli spiriti. E
finché è in tempo, venga a stabilirsi nel nostro regno con la sua famiglia.
Deve semplicemente andare dal professor Moruzzi. Già, proprio lui! In realtà
Moruzzi è il nostro ambasciatore in incognito, con la missione di sondare
possibili degni visitatori di Utopia. Il Vicagon era semplicemente una
caramella dall’effetto placebo, un pretesto per convincere Simone a trovare la
speranza che non potrà mai esserci lì.
Anche Moruzzi è
già a conoscenza della sua ricerca di verità. La accoglierà con piacere e le
consegnerà tre biglietti aerei, uno per lei, uno per suo marito e uno per sua
figlia. È una decisione non facile da prendere e per questo ha tutto il tempo
che vuole. Ci pensi bene.
Non ho altro da dirle, se non che il nostro piccolo
regno la aspetta.
Con piacere,
Dottor Sensore
Shock! Che altro potevo provare? Mostrai la lettera a
Lando.
“Allora Utopia
esiste!” esclamò. “Peccato che per il momento non abbia ferie…”
“Non hai capito
Lando. Chi va su quell’isola non può più tornare. Simone ci ha provato ed è
morto. Il biglietto è di sola andata.”
“Ma come
possiamo mollare tutto e andare in questo luogo sconosciuto che, a quanto pare,
è una specie di paradiso?”
“Appunto, come
possiamo non farlo?”
Discutemmo per
giorni. L’unico freno che tratteneva sia me che Lando era il non trascurabile
fatto di dover lasciare per sempre i miei genitori io e sua sorella e sua mamma
lui, familiari ai quali eravamo fortemente legati. Ne parlai con Moruzzi un
giorno all’ospedale Maggiore di Bologna. La sua risposta fu gentile ma
risoluta: No, non potevano venire con noi. Pochissimi hanno il privilegio di
andare a Utopia, se fosse diversamente, l’isola diverrebbe “umana” e questo la
distruggerebbe.
“Mi dispiace
davvero tanto e vi capisco” concluse il professore. “Sta a voi decidere
comunque. Nessuno vi obbliga a partire. Pensateci con calma e quando avrete
deciso, venitemi a trovare.”
Decidemmo. Gli
anni passano a una velocità frastornante, il mondo peggiora sempre di più man
mano il progresso avanza, gli uomini regrediscono moralmente, intellettualmente
e spiritualmente. Avidità, intolleranza, guerre, terrorismo, alienazione,
ignoranza… tutto porta a una sola conclusione: la distruzione, il Vuoto, quello
che Simone paventava e che lo ha ucciso.
Decidemmo dunque. Ma prima dovevo sistemare alcune
faccende.
VI
Con la complicità di Moruzzi organizzammo il funerale di
Simone. Mediante una complicata alterazione di documenti riuscì a farlo
risultare deceduto quattro anni prima in un incidente aereo in Peru. Dopo una
ricerca svolta da alcuni 007 di Utopia era venuto a sapere che sul volo 825 di
una trasandata compagnia aerea peruviana – volo da Lima a Cuzco – erano morte
carbonizzate venticinque persone dopo che l’aereo aveva preso fuoco in fase di
decollo, e che tra queste venticinque persone due non erano state identificate;
così prese la palla al balzo e mi telefonò per farmi sapere che avremmo potuto
inscenare il decesso di Simone. Fui d’accordo, anche perché così i miei
genitori avrebbero smesso di soffrire credendo Simone chissà dove, forse vivo o
forse morto, forse malato o forse guarito. Negli ultimi tempi avevano una
sempre più flebile speranza di rivederlo. Almeno così sapevano dov’era ed erano
sicuri che non soffriva più come in vita.
Il giorno prima
del funerale mi giunse un’altra lettera del dottor Sensore.
Cara Arianna,
le spedisco una fotografia che fece suo fratello un
giorno qui a Eldorado. Prima di tornare nel vostro mondo, mi confidò che se
fosse morto, avrebbe voluto questa immagine sulla sua lapide. Dopo anni di
autoscatti, ne aveva trovato uno che gli piaceva particolarmente.
A presto,
Dottor Sensore
Allegato al foglio c’era la foto. La lapide l’avrebbero
posata una settimana dopo la sepoltura. Fu difficile trovare una ditta che
volesse realizzarla con la forma di un boccale di birra, ma alla fine Lando ne
trovò una.
Il giorno del
funerale c’erano tante persone. Degli amici ancora in vita che aveva menzionato
ne “La grande Inculata” come coautori dell’omicidio notai solo Gisto e Mastro
Marasca. Osservandoli pensai che erano invecchiati molto rispetto pochi anni
prima. Pensai, mentre il corteo funebre si dirigeva al cimitero, che stavo
vivendo una storia davvero irreale. Pensai che stavo seppellendo le ossa di uno
sconosciuto al posto di quelle di mio fratello e che mio fratello mi mancava
tantissimo, ma sentivo la sua presenza incredibilmente tangibile. Pensai che
aveva ragione il dottor Sensore: che importava sapere se Simone e i suoi amici
avevano ucciso Robby? Sapere, sapere, sapere… viviamo per sapere. Ma sapere
cosa? Anche il più intelligente degli uomini, il più grande filosofo o
intellettuale, l’artista più sublime, morirà senza sapere. Chiunque creda di
sapere, arriverà a esalare l’ultimo respiro senza in realtà aver mai saputo
nulla.
Decisi che Simone
era innocente, che la sua “Grande Inculata” era solamente la prima parte
di un romanzo che se non fosse rimasto vittima del Vuoto che lo circondava,
avrebbe finito lui stesso e non io, dopo mesi di indagini ed eventi difficili
da credere. Decisi che avrei parlato di Utopia a mio padre e mia madre. E insieme
a Lando ne avremmo parlato con sua madre e sua sorella. Mentre Simone veniva
calato nella fossa, decisi che sì, avrei fatto pubblicare questa storia, dove
si parla in fondo di personaggi irreali, irreali in quanto passati, morti,
seppur vivi. Nessuno aveva mai denunciato la scomparsa di Robby, nessun parente
si era mai fatto vivo. Robby era una metafora per lasciare un messaggio. O per
non dire proprio niente. Che Robby sia vissuto o che non sia mai esistito,
NESSUNO LO SAPRÀ MAI. Decisi, mentre due becchini gettavano le ultime badilate
di terra, che l’aforisma per mio fratello l’avrei scelto io:
CERTI INDIVIDUI
NASCONO PER SEMINARE
NELLA SPERANZA
CHE QUALCUNO RACCOLGA
Quando parlammo
con i nostri parenti del viaggio che intendevamo fare, non credettero subito
all’esistenza di Utopia, ma mi videro così entusiasta e coinvolta nella
descrizione (immaginaria) del luogo che alla fine si convinsero della sua
esistenza. Non dicemmo loro del fatto che non saremmo più tornati; in fondo
avevamo sempre la piccola speranza che un giorno avrebbero “guadagnato” il
biglietto per raggiungerci. Furono le parole di mia madre a darmi lo stimolo
definitivo per partire:
“Fate bene ragazzi
miei” disse. “Qui si respira la stessa aria che si respirava prima della
seconda guerra mondiale… Crescete Giulia lontano dalla follia!”
Andammo da
Moruzzi un pomeriggio di dicembre. Era quasi Natale e fiocchi di neve finissima
cadevano dal cielo sopra Bologna. Ci diede i biglietti e ci disse che avremmo
finalmente vissuto nel mondo come dovrebbe essere . L’aereo per Utopia
partiva da Roma e avrebbe fatto innumerevoli scali, fino a che a bordo non
fossero rimasti solo i passeggeri prescelti per l’atterraggio sul suolo del
Regno. Il volo era previsto per il giugno dell’anno successivo.
VII
E così siamo giunti alla fine, anche se sarebbe più esatto
dire all’inizio. Domani io, Giulia e Lando vedremo Utopia.
Da dicembre –
quando Moruzzi ci ha consegnato i biglietti aerei – ho svolto un’incessante
ricerca di un buon editore che pubblicasse questa storia. L’ho trovato. È stato
da subito entusiasta della trama: “Geniale!” ha sbottato al telefono una volta
letto “La Grande
Inculata ”, “una delle storie più fantasiose che mi sia mai
passata tra le mani.”
Siccome al
capitolo VI, quello intitolato RITORNO AL PASSATO, riferendosi a “Tony
Stantuffo” Simone scrive “Spero che almeno dopo la mia morte qualche editore lo
consideri”, il gentile editore ha voluto assolutamente leggere anche quella
storia e dopo aver esclamato “Geniale! Ancor più fantasiosa e surreale de “La Grande Inculata ””
mi ha chiesto se volevo pubblicarla prossimamente. Ovviamente ho accettato,
così tra qualche mese potrete leggere le fantastiche avventure di Tony detto
Stantuffo.
Ora devo
lasciarvi per andare al cimitero, dove la lapide di Simone è ancora senza foto.
Ho atteso tutto questo tempo apposta, come se sentissi che fosse questa la
volontà di Simone. Da oggi, chiunque passerà davanti al luogo dove riposano le
sue “false” spoglie mortali, potrà rendersi conto che grande artista fosse mio
fratello osservando la foto che mi spedì il dottor Sensore. Questa.
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