sabato 10 gennaio 2015

Capitoli finali (da IV a VII)

IV

Non riuscivo quasi a credere alla mia sbadataggine, al fatto di aver trascurato un suggerimento così chiaro. Forse perché la consideravo inconsciamente un’opera di fantasia. Era scritto nero su bianco tra le pagine de “La Grande Inculata”:

“… non erano rimaste che le ossa, le quali sotterrammo accanto al pozzo.”

    La notte stessa dell’incontro con Gisto mi munii di una pala e di una potente torcia elettrica e andai alla casa di campagna di Gallo.
    Quella sera, prima di partire, avevo raccontato  a Lando tutti i dettagli dell’oscura vicenda. Come prevedevo fece fatica a credere alla storia, poi però, ipotizzando che potesse essere anche solo in parte vera, si disse molto preoccupato per la mia ostinazione nel voler risolvere il Grande Mistero.
    “Stanotte vengo con te, non voglio nemmeno immaginarti nei pressi di una casa sperduta a scavare per cercare uno scheletro” disse.
    “No Lando, devo andare da sola. Ho deciso di non coinvolgere nessun altro all’infuori di me in questa faccenda. Riguarda me e mio fratello. E poi non possiamo sempre lasciare Giulia dai nonni, no?!”
    Conosceva bene la mia testa dura Lando, e dopo una breve discussione si arrese, accettando la mia decisione ma esortandomi a fare molta attenzione.
    Ero dunque sola alle ventidue e quarantacinque di quella sera di ottobre, unico essere umano nel raggio di un paio di chilometri. La casa denotava lavori di ristrutturazione in corso. Mentre scavavo, per scacciare quel vago senso di pericolo – pericolo immaginario, evocato dalla notte e dai fantasmi veri o presunti che vi aleggiavano – mi ero messa a ripetere “sempre resti, resti dappertutto, sempre resti, resti dappertutto…” come fosse un mantra.
    All’una e mezza avevo scavato per un paio di metri nel raggio del pozzo, raggiungendo una profondità di un metro, un metro e mezzo. Quasi stremata e soprattutto rassegnata mi lasciai cadere supina in quella buca spettrale. Il cielo era stellato e l’aria di metà ottobre era pungente, più vicina all’inverno che all’autunno.
    “È tutta un’invenzione, uno scherzo, è… è…è solo un romanzo” mi dissi. “Simone è morto chissà dove e non esiste nessun Robby. Non verrò mai a capo di nulla.”
    Poi d’un tratto mi accorsi che sotto il peso della mia testa appoggiata per terra qualcosa cedeva, faceva clic clac come certi tappi d’alluminio, quelli per garantire l’integrità del prodotto che contengono. Mi alzai di scatto e tolsi un po’ di terra con le mani. Apparve il coperchio di uno scrigno azzurro di metallo leggermente ossidato. Lo dissotterrai con il cuore che andava a mille per l’emozione. Era lungo una trentina di centimetri per venti e quindici centimetri di altezza: non poteva certo contenere uno scheletro, almeno non tutto. Cercai di calmarmi un poco riprendendo il mantra interrotto, poi l’aprii. Al suo interno c’erano due macchinine da corsa (un modellino Formula 1 di Ferrari e uno di  Lotus), una decina di soldatini di plastica, un pupazzetto di peluche di Kermit la rana, tre palline di plastica con le foto di ciclisti dentro (Moser, Saronni e Merckx), di quelle che i bimbi usavano una volta in spiaggia per fare le gare sulle piste disegnate sulla sabbia. C’erano anche un volumetto di fumetti di “Topolino”, uno di “Nonna Abelarda”, una mazzetta di figurine di Barbapapà e un robot con gli arti snodabili, Daitarn III per la precisione.
    Riconobbi quegli oggetti: erano di Simone, non c’erano dubbi. Ricordavo ancora quelle macchinine, anch’io ci avevo giocato insieme a lui; avevo giocato anche con le palline in spiaggia e a causa di quei giornaletti abbiamo fatto interminabili litigate da piccoli. Anche per le figurine litigavamo, perché l’album era di entrambi e lui mi accusava di attaccarle storte (già si notava la sua tendenza al perfezionismo). Che emozione! Trattenni le lacrime, arginando come potevo il fiume di ricordi. Ma passato il turbamento sopraggiunse la confusione. Cosa significava quello scrigno azzurro? Perché mio fratello lo aveva sepolto? E perché proprio lì in campagna da Gallo? Mi persuasi che ci dovevano essere anche le ossa di Robby là sotto. Scavai e scavai, ossessivamente, fino a cadere arresa e stremata. Alle prime luci dell’alba caricai in macchina pala, torcia e scrigno e tornai a casa.



V

Non so cosa pensò Gallo quando scoprì la buca intorno al pozzo, ma qualche ora dopo, in piena mattinata, mi arrivò una telefonata anonima a casa. Una voce metallica disse semplicemente “Contenta adesso?” e riagganciò.
    Benché stremata, quella mattina non ero andata a letto. Lando mi aveva accolto in casa preparandomi un caffè. Mi rimproverò di aver lasciato a casa il cellulare. Disse che non aveva chiuso occhio tutta notte e almeno un paio di volte aveva pensato seriamente di raggiungermi, poi però aveva rinunciato ricordando il giuramento che gli avevo fatto fare di non intromettersi nella faccenda. Sono una ragazza dolce e gentile, ma quando dico una cosa è quella e guai a contraddirmi!
    Davanti alla tazza fumante di caffè gli mostrai lo scrigno.
    “Certo che tutta questa storia è davvero bizzarra” mi disse Lando.
    “Già” ribattei laconica io.
    Mentre distrattamente sfogliavo il “Topolino” che c’era nella scatola, dal suo interno cadde sul pavimento un foglio piegato in due. Lo aprii e vidi questo disegno…

 



    Una lapide! Una lapide a forma di boccale di birra! Era opera di Simone, non c’erano dubbi. Aveva segnato pure l’anno di nascita. Probabilmente era il suo progetto per una tomba su misura da abbinare all’aforisma “perfetto” che da anni cercava di creare. Non che mio fratello ci tenesse troppo a farsi seppellire; voglio dire, a lui sarebbe andato bene anche farsi cremare, o essere gettato nell’immondizia per quanto gliene importava. Visto però che non voleva privare chi gli voleva bene di ricordarlo davanti a un feticcio commemorativo, il fratellone aveva elaborato il suo prospetto.
    Dopo quel giorno di ottobre in cui trovai lo scrigno, gli eventi si susseguirono rapidamente. Un giorno mi giunse una lettera. Notai subito il francobollo che rappresentava un’aquila in volo. Regno di Utopia c’era scritto sullo sfondo di un cielo azzurro. Aprii la busta con il cuore in gola e lessi:

Cara Signora Arianna,
sono venuto a conoscenza delle sue ricerche. Se si chiede come ho potuto glielo spiego subito: la rete spionistica di Utopia è la più avanzata del mondo. So quello che le ha scritto suo fratello e so che lei è una brava persona. Sono certo che saprà mantenere il segreto, ma del resto, chi le crederebbe?!
Forse si aspetta che la aiuti a risolvere il Grande Mistero. Ebbene, non posso. Non posso perché adesso Simone appartiene alla storia, al passato, è un po’ come il personaggio di un romanzo fantastico. Ha ucciso o no Robby? CHE IMPORTANZA HA ORMAI? Ha voluto confessare un efferato omicidio o sotto Robby si nascondeva una metafora? Voleva semplicemente liberarsi di un pesante segreto o inviare un forte messaggio alle poche persone intelligenti che vivono nel mondo fuori da Utopia? Lasci perdere cara Arianna. Lasci che Simone se la rida di tutti là dov’è ora, nel mondo degli spiriti. E finché è in tempo, venga a stabilirsi nel nostro regno con la sua famiglia. Deve semplicemente andare dal professor Moruzzi. Già, proprio lui! In realtà Moruzzi è il nostro ambasciatore in incognito, con la missione di sondare possibili degni visitatori di Utopia. Il Vicagon era semplicemente una caramella dall’effetto placebo, un pretesto per convincere Simone a trovare la speranza che non potrà mai esserci lì.
Anche Moruzzi  è già a conoscenza della sua ricerca di verità. La accoglierà con piacere e le consegnerà tre biglietti aerei, uno per lei, uno per suo marito e uno per sua figlia. È una decisione non facile da prendere e per questo ha tutto il tempo che vuole. Ci pensi bene.
Non ho altro da dirle, se non che il nostro piccolo regno la aspetta.

Con piacere,
Dottor Sensore

Shock! Che altro potevo provare? Mostrai la lettera a Lando.
    “Allora Utopia esiste!” esclamò. “Peccato che per il momento non abbia ferie…”
    “Non hai capito Lando. Chi va su quell’isola non può più tornare. Simone ci ha provato ed è morto. Il biglietto è di sola andata.”
    “Ma come possiamo mollare tutto e andare in questo luogo sconosciuto che, a quanto pare, è una specie di paradiso?”
    “Appunto, come possiamo non farlo?”
    Discutemmo per giorni. L’unico freno che tratteneva sia me che Lando era il non trascurabile fatto di dover lasciare per sempre i miei genitori io e sua sorella e sua mamma lui, familiari ai quali eravamo fortemente legati. Ne parlai con Moruzzi un giorno all’ospedale Maggiore di Bologna. La sua risposta fu gentile ma risoluta: No, non potevano venire con noi. Pochissimi hanno il privilegio di andare a Utopia, se fosse diversamente, l’isola diverrebbe “umana” e questo la distruggerebbe.
    “Mi dispiace davvero tanto e vi capisco” concluse il professore. “Sta a voi decidere comunque. Nessuno vi obbliga a partire. Pensateci con calma e quando avrete deciso, venitemi a trovare.”
    Decidemmo. Gli anni passano a una velocità frastornante, il mondo peggiora sempre di più man mano il progresso avanza, gli uomini regrediscono moralmente, intellettualmente e spiritualmente. Avidità, intolleranza, guerre, terrorismo, alienazione, ignoranza… tutto porta a una sola conclusione: la distruzione, il Vuoto, quello che Simone paventava e che lo ha ucciso.
Decidemmo dunque. Ma prima dovevo sistemare alcune faccende.



VI 

Con la complicità di Moruzzi organizzammo il funerale di Simone. Mediante una complicata alterazione di documenti riuscì a farlo risultare deceduto quattro anni prima in un incidente aereo in Peru. Dopo una ricerca svolta da alcuni 007 di Utopia era venuto a sapere che sul volo 825 di una trasandata compagnia aerea peruviana – volo da Lima a Cuzco – erano morte carbonizzate venticinque persone dopo che l’aereo aveva preso fuoco in fase di decollo, e che tra queste venticinque persone due non erano state identificate; così prese la palla al balzo e mi telefonò per farmi sapere che avremmo potuto inscenare il decesso di Simone. Fui d’accordo, anche perché così i miei genitori avrebbero smesso di soffrire credendo Simone chissà dove, forse vivo o forse morto, forse malato o forse guarito. Negli ultimi tempi avevano una sempre più flebile speranza di rivederlo. Almeno così sapevano dov’era ed erano sicuri che non soffriva più come in vita.
    Il giorno prima del funerale mi giunse un’altra lettera del dottor Sensore.

Cara Arianna,
le spedisco una fotografia che fece suo fratello un giorno qui a Eldorado. Prima di tornare nel vostro mondo, mi confidò che se fosse morto, avrebbe voluto questa immagine sulla sua lapide. Dopo anni di autoscatti, ne aveva trovato uno che gli piaceva particolarmente.
A presto,
Dottor Sensore

Allegato al foglio c’era la foto. La lapide l’avrebbero posata una settimana dopo la sepoltura. Fu difficile trovare una ditta che volesse realizzarla con la forma di un boccale di birra, ma alla fine Lando ne trovò una.
    Il giorno del funerale c’erano tante persone. Degli amici ancora in vita che aveva menzionato ne “La grande Inculata” come coautori dell’omicidio notai solo Gisto e Mastro Marasca. Osservandoli pensai che erano invecchiati molto rispetto pochi anni prima. Pensai, mentre il corteo funebre si dirigeva al cimitero, che stavo vivendo una storia davvero irreale. Pensai che stavo seppellendo le ossa di uno sconosciuto al posto di quelle di mio fratello e che mio fratello mi mancava tantissimo, ma sentivo la sua presenza incredibilmente tangibile. Pensai che aveva ragione il dottor Sensore: che importava sapere se Simone e i suoi amici avevano ucciso Robby? Sapere, sapere, sapere… viviamo per sapere. Ma sapere cosa? Anche il più intelligente degli uomini, il più grande filosofo o intellettuale, l’artista più sublime, morirà senza sapere. Chiunque creda di sapere, arriverà a esalare l’ultimo respiro senza in realtà aver mai saputo nulla.
    Decisi che Simone era innocente, che la sua “Grande Inculata” era solamente la prima parte di un romanzo che se non fosse rimasto vittima del Vuoto che lo circondava, avrebbe finito lui stesso e non io, dopo mesi di indagini ed eventi difficili da credere. Decisi che avrei parlato di Utopia a mio padre e mia madre. E insieme a Lando ne avremmo parlato con sua madre e sua sorella. Mentre Simone veniva calato nella fossa, decisi che sì, avrei fatto pubblicare questa storia, dove si parla in fondo di personaggi irreali, irreali in quanto passati, morti, seppur vivi. Nessuno aveva mai denunciato la scomparsa di Robby, nessun parente si era mai fatto vivo. Robby era una metafora per lasciare un messaggio. O per non dire proprio niente. Che Robby sia vissuto o che non sia mai esistito, NESSUNO LO SAPRÀ MAI. Decisi, mentre due becchini gettavano le ultime badilate di terra, che l’aforisma per mio fratello l’avrei scelto io:

CERTI INDIVIDUI NASCONO PER SEMINARE
NELLA SPERANZA CHE QUALCUNO RACCOLGA

    Quando parlammo con i nostri parenti del viaggio che intendevamo fare, non credettero subito all’esistenza di Utopia, ma mi videro così entusiasta e coinvolta nella descrizione (immaginaria) del luogo che alla fine si convinsero della sua esistenza. Non dicemmo loro del fatto che non saremmo più tornati; in fondo avevamo sempre la piccola speranza che un giorno avrebbero “guadagnato” il biglietto per raggiungerci. Furono le parole di mia madre a darmi lo stimolo definitivo per partire:
    “Fate bene ragazzi miei” disse. “Qui si respira la stessa aria che si respirava prima della seconda guerra mondiale… Crescete Giulia lontano dalla follia!”
    Andammo da Moruzzi un pomeriggio di dicembre. Era quasi Natale e fiocchi di neve finissima cadevano dal cielo sopra Bologna. Ci diede i biglietti e ci disse che avremmo finalmente vissuto nel mondo come dovrebbe essere . L’aereo per Utopia partiva da Roma e avrebbe fatto innumerevoli scali, fino a che a bordo non fossero rimasti solo i passeggeri prescelti per l’atterraggio sul suolo del Regno. Il volo era previsto per il giugno dell’anno successivo.



VII

E così siamo giunti alla fine, anche se sarebbe più esatto dire all’inizio. Domani io, Giulia e Lando vedremo Utopia.
    Da dicembre – quando Moruzzi ci ha consegnato i biglietti aerei – ho svolto un’incessante ricerca di un buon editore che pubblicasse questa storia. L’ho trovato. È stato da subito entusiasta della trama: “Geniale!” ha sbottato al telefono una volta letto “La Grande Inculata”, “una delle storie più fantasiose che mi sia mai passata tra le mani.”
    Siccome al capitolo VI, quello intitolato RITORNO AL PASSATO, riferendosi a “Tony Stantuffo” Simone scrive “Spero che almeno dopo la mia morte qualche editore lo consideri”, il gentile editore ha voluto assolutamente leggere anche quella storia e dopo aver esclamato “Geniale! Ancor più fantasiosa e surreale de “La Grande Inculata”” mi ha chiesto se volevo pubblicarla prossimamente. Ovviamente ho accettato, così tra qualche mese potrete leggere le fantastiche avventure di Tony detto Stantuffo.
    Ora devo lasciarvi per andare al cimitero, dove la lapide di Simone è ancora senza foto. Ho atteso tutto questo tempo apposta, come se sentissi che fosse questa la volontà di Simone. Da oggi, chiunque passerà davanti al luogo dove riposano le sue “false” spoglie mortali, potrà rendersi conto che grande artista fosse mio fratello osservando la foto che mi spedì il dottor Sensore. Questa.







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